Empatia nella pratica medica

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 12 dicembre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Rallegratevi con quelli che sono nella gioia,

piangete con quelli che sono nel pianto.

 [San Paolo, Lettera ai Romani 12, 15]

 

E finalmente siate tutti concordi, partecipi

delle gioie e dei dolori degli altri …

 [Prima Lettera di San Pietro Apostolo 3, 8]

 

 

Secondo le conoscenze neuroscientifiche attuali, le basi cerebrali per l’atteggiamento empatico sono già presenti alla nascita, con le differenze nella dotazione individuale che si possono riscontrare nelle altre facoltà psichiche, e con le stesse possibilità di essere sviluppate o lasciate quiescenti, a seconda dell’esperienza e dell’apprendimento specifico che ha luogo nell’età evolutiva e nel resto della vita. Gli studi sull’encefalo degli psicopatici, categoria abolita dal DSM-5 ma esistente come realtà neurobiologica, hanno rilevato un deficit di sviluppo di alcune strutture cerebrali mediatrici di sentimenti ed empatia; pertanto, si può supporre che esistano persone congenitamente iposensibili al dolore e alla gioia altrui, in una gamma che va da quella dei sociopatici a quella delle persone comunemente ritenute superficiali o fanciullesche.

Le differenze individuali di sensibilità affettiva nei confronti degli altri sono anche minimizzate o trascurate da concezioni popolari, oggi spesso diffuse via web e media convenzionali, che tendono a ridurre ogni attitudine e tendenza psichica a stato d’animo temporaneo e a reazione emotiva, positiva o negativa che sia. In ogni caso, soprattutto in considerazione della possibile esistenza di una parte della popolazione generale poco dotata di sensibilità interindividuale, è necessaria un’educazione che guidi e supporti l’acquisizione di un’attenzione particolarmente rivolta alla percezione della sofferenza altrui e della condizione psicologica che l’accompagna.

La guida alla capacità di immedesimarsi, pur tenendosi alla giusta distanza emotiva necessaria per la lucidità e l’efficienza richieste dall’intervento professionale, a nostro avviso non può consistere in una semplice istruzione, ma deve implicare un’educazione, e non sarebbe efficace se fosse concepita come trasmissione di informazioni, ma è opportuno che rientri a pieno titolo nella formazione.

Tradizionalmente la pratica medica, oltre ad avere il riferimento di base del codice deontologico concepito nel quadro della filosofia del diritto dominante, ha avuto dei modelli di alta cultura, profonda competenza scientifica ed alti valori morali. Storicamente, in Italia e negli altri paesi europei, coloro che intraprendevano gli studi e poi la professione medica si sentivano eredi di una tradizione di medici-scienziati e medici-santi che avevano dato la propria vita per quella degli altri, attraverso il progresso delle conoscenze e la cura delle singole persone. Il dottore in medicina aveva un ruolo sociale importante e riconosciuto, il cui valore derivava principalmente dalla coscienza collettiva della sua assunzione di responsabilità circa la vita degli altri.

Poco dopo la metà del secolo scorso e nei decenni successivi, con la crisi dei due principali modelli culturali che ispiravano la figura e il ruolo del medico, ossia l’autorità morale del professionista che interpretava la missione cristiana di guarigione e sollievo della sofferenza e l’autorità scientifica di profonda cultura laica e darwiniana che interpretava la professione come missione di solidarietà secondo il principio di fratellanza, si fa strada un’incertezza sempre maggiore nelle forme comportamentali e, in parte, nella sostanza stessa del ruolo, per la parte non strettamente tecnica dell’intervento sanitario. Mentre nei secoli precedenti il giovane che diventava medico, indipendentemente dallo strato sociale di provenienza, assumeva identità pubblica e connotati di status propri di un importante ruolo di responsabilità e prestigio, al punto che molti giovani delle classi meno agiate intraprendevano gli studi medici per ottenere promozione sociale, avviene in quel periodo che ciascuno cominci a interpretare il ruolo di medico a modo proprio.

Dal tempo di Ippocrate fino al ventesimo secolo, con tutti i cambiamenti e le particolarità che ci tramanda la storia per ciascuna epoca, si è ritenuto che diventare medico implicasse la scelta di una filosofia di vita, ispirata alla più alta missione concepibile nel contesto umano, e che questa scelta vincolasse, quale naturale conseguenza, uno stile di comportamento, tanto austero e riservato nelle occasioni sociali, quanto disponibile, altruistico, generoso e attento nelle circostanze professionali. I nuovi medici, tentati dallo stile informale e diretto dei colleghi di oltreoceano, non esigevano più il rispetto dei loro predecessori, ma troppo spesso difettavano nel rispettare i pazienti e nello stabilire quel rapporto di reciproca intesa fino allora ritenuto indispensabile per un corretto ed efficace esercizio della medicina.

La radice antropologica greca della sensibilità al dolore, che nel mondo latino trova la sua piena espressione con la diffusione del pensiero cristiano portato in Italia dalla predicazione apostolica, rivela interessantissimi elementi psicologici. Il termine pathos è impiegato per indicare lo stato d’animo del bambino che vede un adulto soffrire[1]. Dunque, originariamente pathos indica specificamente la sofferenza empatica. Nella documentazione storica e letteraria del mondo classico troviamo una gamma di stili di personalità prototipici ed esemplari, quali quelli degli eroi, che incarnano modi diversi e talora opposti di rapportarsi agli altri.

Addestrati alla guerra fin dalla più tenera età, gli uomini dovevano imparare l’adattamento attraverso le privazioni, dovevano acquisire attitudine al sacrificio mediante esercitazioni massacranti per accrescere la forza e, soprattutto, dovevano sviluppare il coraggio. Non si diventava coraggiosi solo saltando attraverso il fuoco o da alti cumuli di pietre ma anche – ritenevano gli antichi – imparando la crudeltà: uccidendo e straziando animali con spade e pugnali si acquisiva la spietatezza necessaria a massacrare i nemici e infierire sui loro corpi. Achille uccide Ettore, esulta di gioia, spoglia il nemico ucciso delle armi, lega il suo corpo al carro e lo trascina intorno alle mura della città nella macabra esibizione di un cadavere come trofeo di guerra.

Enea, l’eroe pio, devoto agli dei e al padre, che nell’Ade gli raccomandava di parcere subiectis et debellare superbos (risparmiare i vinti e sconfiggere i superbi), soffre nel veder morire, si dispiace per la sofferenza altrui e mostra un’umanità che interpreta valori morali celebrati nell’Atene del IV e III secolo a.C., anche se più spesso associati alla narrazione agiografica delle virtù di donne aristocratiche o di re saggi e illuminati.

Nella medicina ippocratica il rapporto del medico con l’ammalato è fortemente caratterizzato dall’attesa della guarigione, intesa come fiducia del paziente nelle capacità del medico e certezza del curante nell’efficacia delle misure terapeutiche di cui dispone per tutte le malattie conosciute e ritenute all’epoca guaribili[2]. In sostanza, fra il medico e l’ammalato si stringe un’alleanza basata sulla fiducia, dalla quale si riteneva dipendesse in gran parte la guarigione; e ciò era vero soprattutto in ragione del fatto che molte prescrizioni consistevano in diete e pratiche di comportamento che il paziente doveva accettare e seguire scrupolosamente. Il cardine della fiducia, considerato come un flusso psichico reciproco, aveva una ben precisa definizione formulare che, non per caso, aveva puntuali riscontri nei testi medici egiziani e assiro-babilonesi.

L’effetto placebo la faceva da padrone, come si può dedurre dall’illuminante episodio del Carmide di Platone, in cui si narra di un giovinetto, Carmide appunto, affetto da un mal di testa che nessuno riusciva a guarire; Socrate allora dice di essere in possesso di un pharmakon, ossia un’erba medica, che lo avrebbe potuto guarire solo se associata ad un incantesimo, che non era un atto magico, ma l’effetto prodotto dentro di lui dalle “belle parole” del filosofo.

Il rapporto medico-paziente era dunque concepito come uno speciale accordo basato sulla fiducia e mediato dal ruolo. Il medico, dal tempo di Ippocrate a quello di Galeno, ha per suo principale interesse e scopo la salute del paziente, ma dovrà ben guardarsi, come si evince dagli scritti antichi, dal lasciarsi andare ad affetti pietistici che potrebbero offuscarne il giudizio e indebolirne la capacità decisionale: un arto gangrenoso andava amputato, perché l’esperienza aveva insegnato ai medici che, non ricorrendo a questo sistema cruento, drastico e invalidante, il paziente sarebbe morto[3].

Il medico dell’antichità classica assume la responsabilità della vita del paziente davanti a tutti gli dei, che ha chiamato a testimoni nel giuramento ippocratico, e in base a questo principio tributa e riceve un rispetto sacrale, ma non è tenuto ad entrare in rapporto empatico con il suo assistito. Per quanto riguarda la tradizione mediorientale, non disponendo di documenti che trattino o descrivano esaurientemente la figura del medico nell’antichità ebraica, possiamo far risalire la concezione dell’empatia nel rapporto di cura alla sensibilità cristiana originata dal modo in cui Gesù Cristo stesso ha insegnato l’amore incondizionato per i fratelli e il compito di servizio dell’altro nelle opere di misericordia corporale[4].

Ma la citazione del modello cristiano in questo contesto è quanto mai opportuna, perché l’uomo profetizzato da Isaia come Messia è stato considerato dai contemporanei medico del corpo e dell’anima, costituendo un esempio che, da San Luca Evangelista[5] ai nostri giorni, resiste come modello ideale cui ispirare la dimensione etica della pratica professionale.

David Stevens ricorda che il Nuovo Testamento contiene almeno settantacinque riferimenti agli atti di guarigione e cura compiuti da Gesù e che, nel corso dei secoli, uno degli appellativi con i quali i suoi seguaci lo hanno spesso indicato, preferendolo a quello di “Buon Pastore” o “Re dei Re”, è stato “Grande Medico”[6].

In questa veste, le guarigioni miracolose compiute su chi ha fede, affinché attraverso la salute del corpo trovi quella dell’anima, rivelano una peculiarità del Maestro, anche inteso solo come personaggio storico in una visione laica o agnostica, consistente nel fatto che non compie prodigi dimostrativi per stupire e attrarre le folle senza avere una partecipazione affettiva, ma prova sentimenti: si immedesima nell’angoscia del centurione per la malattia che sta portando a morte il suo servo, prova compassione per il dolore e le lacrime della vedova di Nain, si impietosisce per l’uomo coperto dalle lesioni della lebbra, per quello dalla mano atrofica, come per i due ciechi che si recano presso la sua dimora, e così in tanti altri episodi. Quando si reca da Lazzaro ammalato, e sa che nel frattempo è morto e dovrà risuscitarlo, pur annunciando alle sorelle che avrebbe compiuto il miracolo, scoppia a piangere[7].

Mentre il cardine del rapporto medico-paziente presso i Greci è la fiducia, in una reciprocità interpersonale, nella relazione stabilita dal Cristo col presupposto indispensabile della fede in Dio che lega l’umano al divino come nei sacramenti, il cardine è l’amore.

Fino al XX secolo, nella pratica della medicina nel mondo occidentale il modello cristiano è stato dominante e presente sia nei principi dell’etica professionale sia col diretto impegno di ordini religiosi nelle corsie degli ospedali, con ruoli infermieristici e di supporto all’attività di diagnosi e cura, ma anche attraverso istituzioni mediche cristiane come la Croce Rossa Italiana, la Misericordia e tante altre.

Il paradigma cristiano gestiva in termini spirituali una parte considerevole della dimensione psicologica del rapporto medico-paziente, perciò non sorprende che, con la progressiva scristianizzazione e laicizzazione della società e delle istituzioni mediche, siano venuti a mancare modelli per gestire la sofferenza morale del paziente, dalla semplice paura per la malattia e la morte alle sindromi psicopatologiche causate dallo stress. Così, abbandonata l’integrazione fra medicina del corpo e dello spirito fondata su un’antica tradizione culturale[8], si è determinata una fase di vuoto critico in parte colmata dal ricorso alla gestione psicologica del paziente. Interviene a questo punto nelle corsie di degenza la figura dello psichiatra che, da specialista consulente per i disturbi psichiatrici, assume il ruolo di gestore degli aspetti psicologici del rapporto medico-paziente, non per delega come molti internisti e chirurghi vorrebbero, ma proponendo esperienze pratiche e formative allo stesso tempo con la partecipazione di medici e pazienti.

La prima e più importante esperienza di questo genere, che costituirà prototipo e modello per tante altre tecniche di gestione del disagio e insegnamento pratico di psicologia medica, è quella dei “Gruppi Balint” della Tavistoc Clinic teorizzati nel celebre saggio di Michael Balint Medico, Paziente e Malattia. Il gruppo, presieduto da uno psichiatra specificamente formato in psicologia del rapporto medico-paziente, medicina psicosomatica e tecniche psicoterapeutiche, fungente da supervisore e didatta, è costituito da medici che portano all’esame del gruppo e del supervisore i propri casi clinici insieme con i propri problemi nella gestione dei rapporti coi pazienti. Un decennio dopo la morte di Balint, grazie a Franco Rinaldi, presidente della Società Italiana di Psichiatria e vice-presidente della Società Europea che era stata presieduta dallo stesso Balint, in Italia si diffuse l’impiego di questo paradigma, che i limiti di spazio non ci consentono di illustrare, ma che sicuramente ha rappresentato negli anni Ottanta, e in parte negli anni Novanta, un metodo pratico di formazione psicologica del medico con buoni risultati dovunque sia stato adottato.

Scemata l’adozione di questa prassi, come una moda ormai passata, tutto ciò che riguarda la formazione psicologica del medico è demandato allo studio convenzionale della disciplina accademica, intesa a fornire elementi di cultura generale sulle principali teorie psicologiche.

In ogni caso, con o senza formazione specifica sul rapporto medico-paziente, attualmente non si insegna l’empatia.

I recenti sviluppi della riflessione su questo argomento registrati negli USA fanno tuttavia prevedere un cambiamento di orientamento, che potrebbe influenzare anche le scelte didattiche delle facoltà mediche in Europa. Un organismo autorevole come la Association of American Medical Colleges ha riconosciuto l’empatia come una componente necessaria al fine di fornire al paziente un’assistenza eccellente e l’ha ufficialmente definita Core Entrustable Attribute per la qualificazione professionale dei dottori in medicina.

Uno studio di rassegna ha realizzato una sorta di meta-analisi dei lavori di valutazione dei corsi di promozione dell’atteggiamento empatico nei medici.

(Baugh R. F. et al. The Long-Term Effectiveness of Empathic Interventions in Medical Education: A Systematic Review. Advances in Medical Education and Practice - Epub ahead of print doi: 10.1073/AMEP.S259718, 2020).

La provenienza degli autori è la seguente: University of Toledo College of Medicine and Life Sciences, Toledo, OH (USA); Pulmonary, Critical Care, Allergy, Sleep Medicine, University of California San Francisco Medical Center, San Francisco, CA (USA).

Seguendo la concezione dell’Association of American Medical Colleges, Reginald Baugh, Margaret Hoogland e Aaron Baugh hanno condotto un’accurata rassegna centrata prevalentemente sugli studi relativi ad interventi di istruzione finalizzati alla promozione di empatia e con almeno un riscontro dei dati ad un anno di distanza.

Sono stati esaminati 4910 abstract da PubMed, PsycInfo, Cochrane, Web of Science, CINAHL e Embase, dai quali gli autori hanno selezionato 61 articoli per una valutazione accurata dei contenuti. Cinque studi statunitensi e sette studi internazionali soddisfacevano i criteri qualitativi stabiliti da Reginald Baugh e colleghi.

Un aspetto importante emerso dall’esame dei contenuti è l’eterogeneità dei risultati, che non consente semplificazioni e facili deduzioni circa i principali aspetti della promozione dell’empatia e della sua effettiva evocazione nel corso della pratica. Scarse evidenze supportano l’efficacia di un apprendistato protratto per acquisire capacità empatiche.

Solo pochi studi hanno condotto follow-up realmente significativi per valutare l’efficacia del training per la promozione di empatia e il perdurare nel tempo della capacità acquisita da parte dei medici, ma un elemento accomuna quasi tutti gli studi: il declino di empatia nel corso del tempo.

Rinviando alla lettura dell’articolo originale per i dettagli e per un modello interpretativo dei dati raccolti, si rileva che il ritorno di interesse per questo argomento è sicuramente rilevante, anche se lo sviluppo di empatia nei confronti del prossimo non è paragonabile all’acquisizione di un’abilità cognitiva e riteniamo che nessun esercizio accademico possa surrogare la naturale tendenza empatica sviluppata nelle circostanze della vita reale, come atteggiamento affettivo e non culturale.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-12 dicembre 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Cfr. Giuseppe Perrella, L’Esperienza del dolore. BM&L-Italia, Firenze 2003.

[2] Esemplari, in proposito, sono le raccolte di scritti Ippocratici denominate dai filologi Mal II A e Aff. Int.

[3] Oggi, che si può spiegare al paziente e ai parenti per quali meccanismi molecolari i batteri responsabili della gangrena gassosa possono generare tossicità sistemica causando la morte, comunicare la necessità dell’amputazione non è facile; si può immaginare quanto fosse difficile all’epoca e quale cieca fiducia fosse indispensabile per acconsentire al sacrificio di un arto per salvarsi la vita.

[4] Il gesto simbolico della lavanda dei piedi compiuto da Gesù esprime meglio di ogni altra descrizione l’atteggiamento da tenere con i fratelli. Le due citazioni in esergo, Paolo e Pietro, sono vere esortazioni all’empatia.

[5] Era un colto medico siriano che si convertì nella città di Antiochia, dove gli apostoli Pietro e Paolo avevano fondato una comunità ecclesiale, e lì divenne collaboratore di Paolo. Oltre ad aver scritto il Terzo Vangelo, per il quale si avvalse – secondo la tradizione – della testimonianza di Maria madre di Gesù, fu autore anche degli Atti degli Apostoli.

[6] Cfr. David Stevens, Jesus M. D. – A Doctor Examines the Great Physician, p. 9, Zondervan, Grand Rapids 2001.

[7] Cfr. Giovanni 11, 35.

[8] La lunga transizione è cominciata già nell’Ottocento, ma ha assunto i caratteri attuali solo negli ultimi quarant’anni.